Coronavirus: endemia, epidemia o pandemia?
LETTERA APERTA DEL DOTT. SALVATORE SISINNI
Specialista in Malattie Nervose e Mentali
Primario ospedaliero di Psichiatria
Con questa infezione da coronavirus, ormai pane quotidiano per giornali e telegiornali, nata qualche tempo fa in Cina, tenuta nascosta all’inizio e poi dilagata, settimana dopo settimana, nel nostro Paese - non so se anche negli altri (Francia, Svizzera, Austria, Germania, ecc.) - si sta rasentando l’assurdo o, meglio, il ridicolo (che è peggio).
Si è detto sempre - e si continua a dire - che non c’è da allarmarsi, che la situazione è monitorata - un termine ormai di moda - e, ancora, che il fenomeno è sotto controllo. L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), sempre per fugare ogni allarmismo, all’inizio ha parlato di un focolaio di endemia in una regione della Cina, dopo qualche settimana di epidemia e in questi ultimi giorni sta riconoscendo che si tratta di una pandemia.
È naturale, quindi, che la gente rimanga disorientata; non solo quella non acculturata ma anche quella che ha studiato e che ha conseguito, finanche, una laurea in Medicina, magari con successiva specializzazione in Igiene e Sanità pubblica. Sto esagerando? Non credo. Senza dire che si sta procedendo, nei provvedimenti relativi, in ordine sparso: una Regione decreta in un modo, una in un altro; e, nella stessa Regione, vanno a ruota libera - come si usa dire - l’Assessore alla Sanità, il Prefetto e il Sindaco, quest’ultimo nelle vesti di Autorità sanitaria locale.
E, mi ripeto, tutti tendono a non creare panico, allarme nella popolazione, a non alimentare la paura, vale a dire a non creare la cosiddetta “psicosi del morbo”. C’è chi, costretto a rimanere in casa per un rialzo termico con qualche colpo di tosse, in osservazione, in attesa del risultato del test del tampone si è accorto di essere trattato come un “untore” - e mi viene da pensare alla peste di Milano del 1630, mirabilmente descritta dal Manzoni ne “I promessi Sposi” -. E penso ancora al ben noto e diffuso detto popolare: “Chiudere la stalla dopo che sono scappati i buoi”, vale a dire prendere provvedimenti quando, ormai, il danno è stato fatto.
Alla luce di questi fatti, non sarebbe stato meglio, all’inizio, un falso allarme che un mancato allarme? Il motivo che mi ha spinto a scrivere questa lettera, forse un po’ caustica e ironica, è stata la sorpresa di fronte alla quale mi sono trovato, una volta giunto in Banca per pagare la prima rata del tributo dovuto per la raccolta dei rifiuti solidi urbani, la cosiddetta Tari. Tanta gente assiepata sul marciapiede sotto il sole - anche se debole come quello di marzo - in piedi, una persona accanto o dietro l’altra, visibilmente arrabbiate in una fila che si allungava, minuto dopo minuto. Il motivo? Incredibile ma vero! Si poteva entrare in Banca soltanto ad uno ad uno. Evidentemente per non correre il rischio di contagiarsi a vicenda. Per notare l’assurdità, secondo il mio parere, di tale disposizione, non occorre avere una cultura scientifica o, meglio, medica; dovrebbe bastare il semplice e sempre negletto buon senso.
La mia domanda, a questo punto, a chi di dovere (Dirigenti di vertice della Banca, Ministro della Salute, Assessore regionale alla Sanità, Prefetto, Sindaco del luogo) non ci si poteva contagiare più facilmente stando affollati lungo quel marciapiede che stando comodamente seduti all’interno dell’edificio a distanza regolamentare uno dall’altro? Quale la “ratio” alla base di tale provvedimento? Come al solito - ne sono più che certo - nessuno mi risponderà.