Il sé oltre l’immagine del profilo
A cura della
Dott.ssa Gilda De Giorgi
Psicoterapeuta e psicologa clinica, specializzata in salute
relazioni familiari e interventi di comunità
Maglie
Sempre più spesso ci sentiamo affibbiata l’etichetta di “Civiltà dell’immagine”, a cui si aggiungono espressioni quali “i ragazzi di una volta erano più seri”, “prima i rapporti erano più veri” e via discorrendo. Discorsi sui massimi sistemi che non hanno una conclusione, né un obiettivo definito se non quello di speculare rispetto ad un fenomeno di massa del quale facciamo tutti parte, e che viviamo nella continua tensione tra il voler esserne solo spettatori e il fascino persuasivo di aderirvi tramite social. Ma a cosa si fa riferimento con “Civiltà dell’immagine”? E, soprattutto, di quale immagine stiamo parlando? Per caso del profilo facebook? Dell’ultima storia di instagram?
Non è una novità che nella società attuale ci sia stato un imponente sviluppo dell’aspetto visivo del vivere umano, dove mostrare e mostrarsi rappresentano il modo più semplice e d’elezione per entrare in rapporto col mondo. Non ci si stupisce quindi quando il Censis raccoglie un importante scarto, in favore del secondo gruppo, tra coloro i quali sono a proprio agio con la loro immagine (33%) e coloro i quali aspirano a migliorare il proprio aspetto (56%).
Il termine immagine viene spesso associato a qualcosa che sta in superficie: tema di confronto sociale; bigliettino da visita relazionale; settore di investimento economico; oggi maggiore oggetto di attenzione e investimento emotivo. In realtà, con “immagine” si fa riferimento già alla presenza di due individui, un attore e uno spettatore, ossia chi mostra e chi vede, oltre che a due processi: ciò che si percepisce della realtà, plasmata dalla memoria dell’oggetto precedentemente esperito, e ciò che si pensa di mostrare o si vuole mostrare, una parte del tutto, un particolare.
In entrambi i processi entra in campo qualcosa di molto più profondo, spesso sublimato in superficiale, esterno, esteriore, di quanto si possa pensare: il Sé. È come se l’esteriore e/o esterno svuotasse di sostanza l’interiore e/o interno, di cui esso stesso è fondamento. Ergo, non possiamo parlare di immagine senza parlare del Sé.
Quest’ultimo, per l’appunto, è un concetto multidimensionale, oggetto di studio di molte discipline e analizzato attraverso diverse valenze: individuale-sociale; soggettiva-oggettiva; cognitiva; emotivaaffettiva.
Il concetto di Sé, co-costruito a partire dalla nascita in relazione a se stessi e agli altri, rappresenta l’insieme di elementi che un soggetto utilizza per descriversi, basati su tutte le conoscenze che possiede su se stesso. Ad esempio, il concetto di Sé torna molto utile di fronte a richieste quali: descriviti in 5 aggettivi; cosa mi sai dire di te o completa le informazioni del tuo profilo.
Concetto spesso dibattuto tra approcci e punti di vista differenti, tale per cui la definizione accennata prima risulta la più generale e omnicomprensiva. In particolar modo la psicologia, attraverso diversi autori, ha contribuito a tale definizione. Rispetto ai dati Censis precedentemente citati, questi potrebbero essere spiegati attraverso i concetti di Sé ideale e Sé percepito di W. James, uno dei maggiori esponenti della Psicologia Sociale. Egli spiega come il Sé
“derivi da una costruzione personale attiva dell’individuo su di se”,
che mette insieme nel corso della crescita diverse valenze del Sé, come quello spirituale e sociale, attraverso un accurato lavoro di cesello. Oltre al Sé e alla personalità, come vedremo successivamente, emerge la strutturazione dell’autostima, figlia di un incontro armonioso tra il Sé ideale, ossia l’immagine della persona che ci piacerebbe essere, e il Sé percepito, ovvero il concetto di sé, la conoscenza di quelle abilità, caratteristiche e qualità che sono presenti o assenti.
Si potrebbe quindi formulare l’ipotesi che coloro i quali non sono soddisfatti della propria immagine fisica soffrano di bassa autostima, tale per cui il Sé percepito non riesce a raggiungere il Sé ideale, inducendo tali soggetti ad una continua corsa, sia inconscia che concreta, tangibile, verso un modello tanto adulato e idolatrato come unica forma possibile dell’essere.
E sempre l’alterità, che sia modello o meno, si situa per C. H. Cooley, altro illustre esponente della psicologia sociale, come barometro della costruzione del Sé, attraverso il concetto del Looking Glass Self, ossia Sé Rispecchiato. L’autore descrive il Sé come una struttura legata all’autoconsapevolezza, che si fonda sulle esperienze sociali e relazionali, cioè come una struttura basata sul modo di percepire se stessi e il modo in cui crediamo che gli altri ci percepiscano.
Trattasi dunque della fusione tra la rappresentazione di sé e del mondo, in funzione di quanto valore diamo a noi stessi o, all’opposto, agli altri, in una continua tensione tra dipendenza e controdipendenza. Ed ecco come emerge la socialità del nostro modo di essere e percepirsi, oltre che la sua liquidità, intesa come tensione naturale nel plasmarsi rispetto a ciò che si ritiene socialmente apprezzato/apprezzabile. Ma la grande verità, spesso non vista e occultata dai dettami della moda, è che il potere non è in mano all’altro, ma a noi.
Siamo noi, spesso in maniera inconsapevole, a prediligere la morbida culla dell’accettazione altrui, piuttosto che il tortuoso cammino del self made man, che interiorizza gli atteggiamenti, i ruoli sociali, le rappresentazioni e le aspettative del gruppo sociale di appartenenza e costruisce il proprio sé, incastrandoli con la sua personale idea di mondo, di persona. In fondo, ho specificato prima, il potere dell’altro su di noi è direttamente proporzionale al valore che noi diamo all’idea che lui possa avere potere, tale per cui l’altro non possiede un valore in sé, ma un valore riflesso del nostro investimento.
Come accennato prima, il Sé diventa fecondo in relazione alla personalità. Secondo H. Kohut, grosso esponente della psicologia dinamica, lo sviluppo della personalità coincide con lo sviluppo di un Sé coerente e organizzato, che si trova alla base dell’autonomia della persona. Un bambino che sperimenta relazioni empatiche ed emotivamente equilibrate, dove i caregiver creano il giusto spazio mentale e fisico per l’espressione dei bisogni e la loro soddisfazione, svilupperà, con un buon grado di approssimazione legato all’indole, un narcisismo sano, frutto di adesione al principio di realtà, autostima realistica e un buon senso di sicurezza di sé.
Facendo riferimento alle sane provocazioni trascritte in prima battuta, è bene tenere a mente che la così detta “Civiltà dell’immagine”, o “i giovani di oggi”, sono generazioni figlie, seguaci e evoluzioni di quelle precedenti. L’immagine, di cui tanto si parla, è il disvelamento in termini corporali ed estetici di qualcosa di più profondo ed essenziale, come il Sé. Ergo, forse sarebbe più opportuno ipotizzare che non si è di fronte al declino di valori e all’abuso della funzione specchio, ma semplicemente ad una tendenza nelle nuove generazioni nel co-costruire la propria personalità in maniera diversa. Essendo questa costituita in parte da fattori genetici e in parte da fattori ambientali, probabilmente il cambiamento si situa maggiormente in funzione di questi ultimi, che hanno assunto, o meglio, ai quali abbiamo fatto assumere nel corso del tempo, un valore e un peso specifico maggiori.
C. H. Cooley, Human Nature and the Social Order, New York: Charles Scribner's Sons, revised edn 1922
H. Kohut, "Narcisismo e analisi del Sé" (1971), Bollati Boringhieri, Torino, 1976
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