Quando la semplice paura diventa nevrosi (fobico-ossessiva) e poi psicosi
LETTERA APERTA DEL DOTT. SALVATORE SISINNI
Specialista in Malattie Nervose e Mentali
Primario ospedaliero di Psichiatria
Mai, come in questo periodo, nel nostro Paese c’è stata tanta confusione, tanto disorientamento, tanto stupore. Ne è stata la causa - e lo sarà ancora per molto - l’epidemia/pandemia che, ogni giorno, lascia dietro di sé varie centinaia di vittime.
Di conseguenza, monta la paura. Questo spiacevole sentimento, può avere, è vero, a volte qualche effetto positivo, se viene controllato e induce a comportamenti di prevenzione necessaria ad evitare il peggio - nel nostro caso, il pericolo del contagio da COVID-19 - ma, quando non viene controllato, diventa panico e, non infrequentemente, psicosi. Si entra, così, nella patologia. E non c’è nulla di più grave della sofferenza “immaginaria”. Una persona, un tempo mio collaboratore in ospedale, mi telefona per chiedermi consigli e aiuto, dicendo che da 15 giorni si è chiuso in casa con la moglie, si fa portare qualcosa da mangiare dal figlio, munito di mascherina, senza farlo entrare in casa e, pur non avendo nessun disturbo (tosse, febbre, ecc.) controlla la temperatura ogni ora, notte e giorno, entrando in panico quando il termometro rileva una linea in più, ad esempio da 36,2° a 36,4°. È un caso limite, ma non è il solo.
Questa malattia, definita in gergo psichiatrico “rupofobia” c’è sempre stata; la malattia nei trattati di psichiatria, viene chiamata nevrosi fobico-ossessiva, ma sono sicuro che, cessata questa epidemia, aumenteranno notevolmente di numero i malati rupofobici. Pane - come si suol dire - prezioso per i denti degli psichiatri!
È rimasta nella storia l’espressione “non abbiate paura!” pronunciata da Papa Wojtyla, oggi Santo, in Piazza San Pietro, il 22 ottobre 1972, all’inizio del suo lungo pontificato. Andava letta in una dimensione molto ampia: esortava, in particolare, tutti gli uomini a vincere la paura che allora - fine anni ’70 - toccava tutto il mondo, sia in Oriente che in Occidente, tanto al Nord quanto al Sud.
Oggi, come allora, ma a causa del Coronavirus un “esserino” ultramicroscopico ha gettato paura nel giro di qualche mese, partendo da una città della lontana Cina e poi diffusa in tutto il Pianeta, dove più e dove meno.
Ed è sceso in campo un altro Papa, Francesco, ad esortare i parroci e i religiosi tutti ad uscire dalle sagrestie per andare a trovare i vecchi, i malati, le persone sole nelle loro case, ed ha usato un’altra espressione che resterà nella storia: “Non fate i Don Abbondio!”.
Queste parole richiamano la paura che aveva quel prete semplice del famoso romanzo del Manzoni. Ma non è facile non avere paura: il coraggio, diceva Don Abbondio, se uno non ce l’ha (…). Aveva ragione, perché il coraggio non si vende e quindi non si acquista, ad esempio, in farmacia, come qualsiasi altro farmaco. Pertanto - è questo il motivo per il quale ho voluto tirare in ballo i due Papi, due figure carismatiche della Chiesa Universale - bisogna stare molto attenti a non alimentare la paura con incaute dichiarazioni che, nel nostro caso, non hanno solide basi scientifiche.
Alcuni giorni fa, sentii con le mie orecchie, un membro autorevole (non doveva essere un medico) del Ministero della Salute, che, nel corso del telegiornale, dettava delle norme di comportamento da seguire per evitare il contagio da Covid-19: non uscire da casa, indossare la mascherina e, se si è costretti ad uscire per necessità di vario tipo, starsene alla distanza di sicurezza di almeno un metro da altre persone che si dovessero incontrare - e fino a questo punto si può, anzi si deve, essere d’accordo. Poi, però, diceva, rientrando a casa, bisogna togliersi le scarpe, mettendole sul davanzale all’esterno d’una finestra; togliersi il cappotto, il cappello, la giacca, i pantaloni, la camicia - non arrivò alle mutande - e infilare le pantofole e indossare il pigiama, per poi, se si dovesse uscire di nuovo, cambiare abbigliamento.
Non è troppo? Vorrei sapere se lui lo ha fatto e se lo sta ancora facendo e, per quanto tempo, per quanti mesi lo farà. E se lo sta facendo in questi giorni, il Premier Conte e il nostro, giustamente preoccupato, Presidente Mattarella, mentre passano da una televisione all’altra, a lanciare messaggi, pur doverosi e accettabili.
Quello dello stretto rapporto tra il Covid-19 e la sporcizia è una “falsa notizia” che, purtroppo, sta circolando in questi giorni. Quando, poi, autorevoli esperti in materia (virologi, infettivologi, epidemiologi) l’hanno confutata in maniera chiara.
Ne cito soltanto uno: il prof. Roberto Cadua, Direttore del Centro Malattie infettive del Policlinico “Gemelli” di Roma, che, in merito, così ha detto testualmente: “Si tratta di un virus labile; è vero che all’interno dello sporco può resistere per più tempo, però un conto è isolare un genoma del virus, che è quello che emerge dai vari studi, un conto è riferire la presenza di una coltura. Le tracce che restano sotto le scarpe sono irrisorie; la stessa cosa vale per gli abiti”. A chi credere? Io preferisco credere al prof. Cadua.
Per concludere, una considerazione molto semplice. Trovo inopportune, retoriche, di circostanza, di facciata (non voglio dire ipocrite) le tante sperticate lodi, che da più parti vengono - soprattutto da politici che contano su scala nazionale e regionale - vengono rivolte ai medici, veri eroi del momento, che stanno combattendo in prima linea, con scienza e coscienza, questo “shumani” sanitario, che, da un giorno all’altro, ha messo in ginocchio il nostro Paese, come anche altri Paesi del Pianeta. Quanto siamo fragili!...
Sono sicuro che i medici e tutti i loro collaboratori, anziché essere elogiati oggi, avrebbero preferito essere ascoltati ieri, quando si lamentavano per i turni massacranti nei Pronto Soccorso, che spesso portavano i malati e i loro familiari ad usare la violenza, sia verbale che fisica; quando erano costretti ad “appoggiare” - come se fossero pacchi - i malati in un reparto non di competenza oppure a ricoverarli in altro Ospedale distante centinaia di chilometri dalla loro residenza o, ancora, quando denunciavano l’assenza di sicurezza nelle varie postazioni della Guardia Medica sul territorio; conseguenze tutte, o quasi, dell’incauta e disinvolta chiusura dei tanti piccoli Ospedali di provincia e del taglio dei posti letto in alcuni reparti.
Ai medici, oggi, basta il semplice sorriso d’un paziente che sono riusciti a strappare alla morte quasi certa, per gratificarli e per spronarli ad andare avanti con coraggio, in questa battaglia che non si sa quando finirà.
I plausi, le ovazioni, gli applausi di circostanza, non valgono nulla. Se potessero, presumo, i colleghi medici ai quali sono rivolti, li rimanderebbero ai mittenti.
I medici, in queste circostanze drammatiche, vengono apprezzati, perché esercitano un mestiere molto difficile e ad altissima vocazione sociale.
Con profonda stima e distinti saluti.